Questo è un pezzo scritto nel 96, prima che arrivasse ciniconet e prima che potessi pensare che un giorno qualcuno l’avrebbe mai letto. Una prima versione era stata scritta sui fogli di un blocco notes in ufficio, quando ancora lavoravo tra i colletti bianchi e nello specifico stavo passando una serata ad aspettare un camion con del materiale urgente (mi occupavo di logistica, di magazzini, di altre cose del genere). L’ho rimaneggiato nei giorni seguenti, l’ho battuto al computer e infine è riapparso all’improvviso, mentre mettevo ordine nei miei hard disk.
Non è tra le cose migliori che ho scritto. Quanto a stile, poi, non ne ha. Però l’argomento mi piace, e sebbene io negli anni sia un po’ cambiato, lo ritengo sempre valido e vicino al mio pensiero. Quindi eccolo qui.
I carrelli mi finiscono addosso e i bambini mi finiscono addosso e gli adulti mi finiscono addosso e alla fine non posso fare altro che odiare l’intero mondo. E’ normale, no?
Corrono da una parte all’altra come oche, in maniera del tutto casuale e disordinata. Stanno guardando dei surgelati del cazzo e un secondo dopo buttano l’occhio sui biscotti appoggiati proprio sulla mensola dietro alla mia schiena. E allora ci si fiondano sopra come condor, come se quella fosse l’ultima stramaledettissima scatola di biscotti presente sulla faccia della terra, ambita dalla popolazione intera. Infilano quelle dannate manacce nello scaffale e mi fanno rimbalzare via, senza nemmeno un “permesso” prima oppure uno “scusi” dopo.
Tra l’altro, nel centro commerciale dove vado a torturarmi settimanalmente, hanno fatto questa bella scoperta di mettere all’ingresso carrelli minuscoli per bambini. Come sono carini. Hanno persino una bandiera con un’asta lunga un metro, che si infila immancabilmente nella mia schiena quando i tesorini mi raggiungono. Tutti questi bambini che girano come cani prima repressi a una catena e poi sciolti, mi schiaffano il metallo freddo e duro nelle caviglie e ridono. Ridono e non c’è nemmeno un genitore, lì in giro, a prenderseli per un braccio e a portarseli via, a sgridarli, ad ammonirli, a dir loro che non si fa, non si possono frantumare le palle del prossimo già dopo poco anni di esistenza terrena.
Macché, delegano tutto alla pazienza umana. Io faccio quel che posso, sferzando loro delle belle pedate sui fragili piedini o sul carrello, cercando di decentrarlo dalla loro presa e slogargli magari un polso, ma non è che posso girarmi l’ipermercato per cercarli tutti; faccio quel che posso, appunto.
E’ una sorta di tortura, questa del centro commerciale. Una delle tante torture, mica l’unica. Così, cerco di sbrigarmi. Riempio il carrello senza guardare i prezzi – cosa che invece dovrei fare date le possibilità economiche – e mi porto alla cassa immergendomi in quella dannata coda di altre anime furiose, che ucciderebbero per passarti davanti, che ti si parano d’innanzi e ti fanno vedere che loro hanno solo due o tre articoli e tu invece hai il carrello pieno, che li potresti far passare, no?
No, certo che no.
Non vi farei passare davanti nemmeno se foste moribondi. Anzi, ora che lo so, cercherò di ritardare il più possibile la posa degli articoli sul nastro scorrevole di gomma, nera e sudicia per via di tutte le scatole che si sono rotte lì sopra.
Mi avvicino ai salami e ne prendo un paio, schiaffeggiando prima la mano di un bambino che sta toccando tutti gli insaccati. Altro vizio per il quale meritano di essere messi alla gogna: mani in bocca, mani sul cibo, mani in bocca, mani su dell’altro cibo… oppure arraffano e buttano nei carrelli. Se sei fortunato, non nel tuo, ma di quello che ti sta accanto. Se sei fortunatissimo, in quello dei suoi genitori. Se ti ha baciato la Dea Fortuna, i suoi se ne accorgeranno solo dopo aver pagato, di essersi comprati la ventresca da venti carte e il salmone rosso russo da quaranta. Se non insegnerà l’educazione al figlio, la insegnerà a loro.
Poi, alla cassa, c’è questo tizio che lascia cadere a terra una bottiglia di vodka al melone e io la guardo precipitare e la osservo fotogramma per fotogramma, come fosse la moviola di un’azione calcistica. Ma non va al rallentatore, vola invece a terra a tutt’altra velocità e un solo secondo dopo i vetri sono proiettili che mi finiscono di un centimetro sopra le adidas stan smith, proprio dalle parti delle caviglie, seguiti dalla nauseante mistura appiccicosa che la bottiglia conteneva. Ovviamente, non seguono le scuse. Il tale le fa alla cassiera. Cosa vuoi che gliene freghi alla cassiera, se spacchi una bottiglia di melonvodka del cazzo? Le scuse le devi fare a me, perché la melonvodka del cazzo ce l’ho per metà sulle scarpe e sulle calze, insieme ai cocci appiccicosi del vetro opaco.
E finalmente sono fuori da questo marasma e butto la roba nel baule della panda mentre litigo con un senegalese che vuole vendermi nell’ordine: accendino (un classico), spugne, musicassette, ciddì musicali, dvd masterizzati con le prime visioni, giochi playstation, un elefante di legno originale (originale decché, poi?), un cellulare finto con seicento musichette diverse preimpostate, un braccialetto della fortuna (altro classico) oppure, al limite, un bel paio di bonghi grandi come la mia cucina. Quando ho finalmente finito di riporre il tutto nella macchina, il senegalese mi chiede il carrello. Io mi volto a guardare il chioschetto di ferro dove si vanno a posare i carrelli per riprendersi le cinquecento lire. Un chilometro, più o meno, mi divide da lui.
Passo il carrello tra le mani del senegalese che ringrazia felice e sono felice anch’io d’aver fatto una buona azione. Ogni volta mi fanno incazzare e ogni volta, quando li vedo andar via tristi mi sento uno stronzo totale. SONO, uno stronzo totale, perché l’ho trattato come un rompicoglioni e non è un rompicoglioni. I rompicoglioni erano quelli là dentro e i loro figli viziati. Questo si fa insultare dagli stronzi come me per vendere un elefante di legno e campare anche per oggi.
Infine c’è il traffico, ovviamente. Non è che si può uscire dal centro commerciale alle otto di sera e sperare di percorrere la strada in solitaria. Mi faccio i miei bei due o tre chilometri di coda per via di un trattore che sta all’origine, bastardo maledetto, e dietro al quale tre cretini che non sanno sorpassare hanno dato vita a questo meraviglioso serpente di lamiere luminescenti. Poiché la ricetta della coda non prevede un cretino soltanto, ma più persone. Un trattore per esempio che dà il via, poi uno stolto che gli arriva dietro ma non se la sente di sorpassare, poi un altro ancora che non se la sente (dioscherziamo?) di sorpassare ben due veicoli in un colpo solo. E così arriva il terzo, che magari sorpasserebbe pure, poveretto, ma davvero adesso l’ingombro che ha davanti è troppo lungo e le automobili provengono anche dall’altra parte; lui poi ha una macchina che fa quel che può… E insomma, uno alla volta gli altri si accodano, sempre più motivati a starsene dove sono.
Io, dietro, ho uno che deve essere ubriaco, per giunta. O fumato o flippato per qualche altro motivo. Ogni tanto si porta così a destra da dare una spuntata alla riva erbosa, mentre poco dopo tiene la sinistra un po’ troppo alla sinistra, facendosi lampeggiare e strombazzare da chi arriva dall’altra parte. Questo è il minimo: tiene anche una distanza dal mio culo decisamente preoccupante. Lo guardo dallo specchietto retrovisore e mi sale il panico, temendo che mi arrivi dritto dritto tra le buste della spesa che stanno nel baule. Passo questa funesta ora di coda imprecando e bestemmiando e insultando questo tipo, aggiungendo segni con le mani e con le dita, ma senza che lui mi presti alcuna attenzione. Spero con tutto il cuore che se ne voli fuori strada. Che alla prossima zigzagata sulla destra la ruota scivoli verso la risaia portandosi lui e la sua macchina del cazzo dritti dritti fra i batraci.
E quando arrivo a casa, finalmente evviva eureka, poso le borse sul tavolo e inizio a svuotare. Visto che spendo trecentomilalire ogni volta che vado all’ipermercato, mi aspetto sempre che dalle borse escano degli articoli a sorpresa, che non avevo comprato, ma che la cassiera è stata addestrata a far passare sul rullo senza che i clienti se ne accorgano. Se riempio il cartello, trecentomila. Se lo riempio per metà, trecentomila.
Ci conoscono! Sono le tessere. Quelle tessere merdose che ti fa ogni ipermercato. La tessera che ti dà diritto a dei privilegi. Sconti solo per te, che hai la tessera. Gli altri? Pfui, se ne andassero pure affanculo. Questa è una storia tra l’ipermercato e me, che ho la tessera. Sono un vip, un very ipermarket person, e mi prendo il tonno a tremila, mentre tutti gli altri se lo comprano a cinque. Fottetevi, bastardi. Io ho la tessera.
Ma quando la cassiera passa la suddetta tessera sul lettore del codice a barre, ecco che quel codice le trasmette tutto di me. Come mi chiamo, chi sono, cosa compro. E sa che ogni volta spendo trecentomila e il computer, allora, mi fa uscire quella cifra. Hanno tutto scritto. Analizzano, poi dicono “Questo qui non si è mai lamentato delle trecentomila, lasciamogliele di fisso e ogni tanto aumentiamo di qualche mille, finché non sbotta”.
Invece, sempre robetta striminzita, da queste borse. Cazzate. Scatolette, sottaceti, saccottini, biscottini. Trecento carte di ignobili cazzate. E a guardarle bene, così, sparpagliate sul tavolo, mi accorgo che non so che cosa mangiare per cena. Non c’è niente, lì in mezzo, per cena. Sempre, sempre così. Giro l’ipermercato e mi metto nel carrello tutte le stronzate e gli stuzzichini e le birre e un dvd per passare la serata e…
… e poi non ho preso niente per cenare questa sera.
Mi cerco un buon cd da ascoltare, toy dolls magari, e mi rimetto in macchina.
Pizzeria.