Pronto ACI?

Festa in famiglia: per ogni automobile, è arrivata la comunicazione di cortesia. Di cosa si tratta? Secondo la Regione Lombardia, la complessità di calcolo stabilita dall’amministrazione centrale ha spesso causato errori in buona fede da parte dei cittadini, quindi ci richiedono i soldi del bollo auto 2005, che a loro non risulta pagato. In effetti era molto complesso, in quegli anni remoti, andare in posta e pagare un bollettino. Ma, forse perché appartenenti a un genere mutante con QI più alto, ci eravamo riusciti. Una volta aperte le porte dell’ufficio postale (oggi è più comodo, c’è la fotocellula) era bastato trovare uno sportello con scritto “aperto”, porgere il bollettino e pagare. Ricordo ancora la sudata. Cristo santo, che complessità!

Cosa devo fare se ho già pagato? Facile: telefonare a un numero di telefono per il resto della mia vita, sperando che il disco registrato non dica che tutti gli operatori sono occupati e di riprovare più tardi. Niente attese in linea, riprovare più tardi e fine. E ogni volta ti riascolti tutto lo stramaledetto messaggio introduttivo, caro utente.

Allora vado all’ufficio ACI. Secondo visura della targa da parte loro, il bollo non è pagato. E me lo dicono mentre gli sventolo davanti la ricevuta del bollo pagato. Sa, se ha pagato in posta magari non l’hanno segnalato. Se ha pagato dal tabaccaio magari ha messo un’altra data… Se telefoni al numero che ti danno, non parli con nessuno. Indi: la complessità avrà creato errori, ma dubito riguardino i cittadini. E’ illuminante sapere che nello stesso mondo dove posso prelevare 50 dollari a Manaus con lo stesso bancomat che uso a Milano, succeda che in tre anni nessuno sia riuscito a far sapere a un database che ho pagato il bollo auto.

Non riuscendo quindi a telefonare al numero indicatomi, dopo aver perso tempo (e quindi denaro) a scartabellare tra un milione di ricevute, spenderò qualche altro euro per mandare il tutto via raccomandata a loro e in copia a loro. Ovviamente il tutto condito da un bel “Viva l’Italia”.

Bei tempi quando si riusciva a prendere la linea:

Cose mie, Va tutto bene

16/06/2008

Nella vita ho sempre cercato di dare dei fastidi ai miei genitori. Spesso con ottimi risultati. Avevo valutato l’eventualità di dargli delle soddisfazioni, ma andava oltre le mie capacità. Mio padre ha dovuto assistere alla mia crescita con l’espressione tipica di chi si è appena ingoiato un limone intero.

Per esempio quando mi sono trasformato in MerdaMan, mettendomi un sacchetto di carta in testa – con i buchi per gli occhi – e uno straccio al collo per fare il mantello. Armato di borse piene di letame, correvo davanti a casa di un tale che mi stava sulle palle e gli spiaccicavo merda di vacca sul portone lanciandogliela. Finché una sera tutta la famiglia del suddetto tale mi ha aspettato al varco. Nascosti dietro al portone, al primo lancio sono saltati fuori, mi hanno circondato, catturato e segregato in casa, intimandomi di telefonare a casa. Ma i miei genitori erano al palio di paese, a casa c’era solo mia nonna, che preoccupata è corsa in piazza e ha chiesto al Comitato Organizzatore del Fottuto Palio del Paese di rintracciare i miei. Così, in mezzo a circa seimila persone, mio padre ha sentito chiamare il suo nome al megafono. Mezz’ora dopo era davanti a me, trafelato e spaventato, mentre il tale e il resto della famiglia gli illustravano il mio operato. Il castigo non è durato poi molto. Mentre guardavo l’orizzonte dalla finestra, lo avevo visto arrivare dal fondo della strada, poi sotto alla finestra, poi dirmi con una specie di sorriso che potevo uscire.

Per esempio quando bigiavo a scuola e mio padre veniva fuori dall’istituto a prendermi, perché magari passava di lì e voleva farmi la cortesia di evitarmi il viaggio in treno che dalla città portava al paesello. Stava lì fuori ad aspettarmi e io non uscivo, poi uscivano i miei compagni, poi lui chiedeva loro che fine avessi fatto, loro si inventavano delle scuse assurde e alla fine si presentava incazzato alla stazione per prelevarmi e farmi fare 17 chilometri di cazziate. Finché ho capito la lezione e ho rimediato. Quando bigiavo entravo a scuola mezz’ora prima della fine, mi nascondevo nei cessi e uscivo insieme a tutti gli altri. Alla faccia di quelli che dicevano che non mi applicavo.

Per esempio quando avevo portato a casa due pulcini di anatra reale, in uno scatolone, che avevo appoggiato sul marmo della cucina per poi aprirlo e mostrare soddisfatto i palmipedi. Avevo visto questi pulcini in un allevamento, destinati a morte certa, e tutto quello che potevo permettermi era di comprarne due e salvare almeno le loro vite. Mio padre li aveva guardati prima incredulo, poi con una faccia che non mi dimenticherò mai nella vita, poi era rimasto immobile a fissarli, scrollando la testa, finché i pulcini, fino ad allora immobili anche loro, avevano tentato la fuga e lui si era avventato su di loro per afferrarli e non vedere la cucina mitragliata di merda. Alla fine le anatre erano rimaste con noi, in una piscina di gomma per bimbi messa in mezzo al cortile, e tra i vari cani e gatti del quartiere i nostri animali domestici erano loro. Produttori di starnazzate ed escrementi a ciclo continuo. Una volta litigando con mia madre per qualche cagata di troppo calpestata nel cortile, mi ero messo le anatre in uno scatolone nel bagagliaio e me ne ero andato dicendo che le avrei lasciate nel Sesia. E mentre guidavo nella strada di campagna una macchina da dietro mi faceva gli abbaglianti ed era mio padre. Fermi sul ciglio della strada aveva aperto il baule della mia Y10, preso lo scatolone con le anatre e messo nel suo bagagliaio per riportarsele a casa. E se n’era andato stizzito. E posso ancora ricordarmi la sua macchina che si allontana e le anatre che saltellano di dietro, viste dal lunotto posteriore, sempre più piccoli la macchina lui e loro.

Per esempio quando io e il mio amico Massimo andavamo a fare i gavettoni alla gente del paese, oppure tenevamo in mano i palloncini aperti e spruzzavamo l’acqua in faccia alle persone, a volte prendendole in bocca mentre parlavano ed era piuttosto spassoso, perché facevano glu glu con la bocca tipo annegamento. Poi però ci riconoscevano sempre e venivano a lamentarsi a casa. E venivano anche per gli altri dispetti, come quando ho pisciato sul muro di casa di un loro amico e il proprietario era uscito mentre ancora spruzzavo. E mio padre doveva sfoderare nuovamente la sua faccia un po’ delusa. La stessa faccia che veniva a citofonare nell’appartamento che condividevo con il pizzaiolo di un forno ligure dopo essere scappato di casa appena maggiorenne, che doveva sentire i commenti dei professori dei liceo, che doveva ascoltare il nuovo casino nel quale mi ero cacciato e per il quale mi sarebbe servito il suo aiuto.

Mio padre se n’è andato oggi, verso le sette di sera, con fuori un cielo grigio scuro e nebbioso e piovigginoso che sembrava inverno e non il sedici di giugno del duemilaotto. Spero di avergli lasciato qualche bel ricordo di me, in mezzo a tutte le cazzate e le rogne e i fastidi che gli ho portato alla cortese attenzione nei trentasei anni di vita vissuti insieme. Certo, non tante cose buone quante me ne ha date lui, ma spero almeno un pochino.
Ciao papà. Nessuno dei due ha mai creduto nell’aldilà, ma siamo sempre stati dei bastian contrario, magari avevamo torto noi. Mi auguro di sì, anche se questo significa che m’hai già sgamato: ho ripreso a fumare.

Matteo.

Cose mie