Eppure ho una trentina d’anni. La fascia d’età la condivido con il 70% di quelli che stanno attorno a me. Indi, perché non mi diverto?
Perché non sento dentro quella forza che mi dovrebbe condurre a saltellare in pista e mettermi di fronte alla consolle, ingobbito, sorridente, muovendo ritmicamente la testa, alzando il braccio e puntando il dito indice annuendo? Perché non mi succede, dannazione? Almeno potrei capire che cosa cazzo indicano.
Per tutto ciò io soffro. C’è una sorta di diversità che se a volte puoi fingere di vederla come la chiave di lettura della tua superiorità, molto spesso ti fa solo invidiare il tizio che scrolla la testa, accanto a te. Bello sudato e soddisfatto. Sfatto. Fatti, non parole. Lui, si sta divertendo. Io mi sto rompendo le palle.
Prima, tra l’altro, ho litigato con il buttafuori. Sto per entrare tranquillo e beato quando una mano grande come la mia testa si piazza tra me e il paese dei balocchi.
“Scusa, ma qui c’è selezione all’ingresso”, mi dice il gigante; il padrone della mano, l’incredibile Hulk, solo un po’ più pallido.
E mi guarda con quell’espressione di superiorità che mi dà veramente sui nervi. E’ l’unico caso nella mia vita nel quale vorrei essere qualcuno solo per potergli dire Lei non sa chi sono io! Purtroppo non è l’unico a non saperlo. Non lo sa nessuno. Non sono nessuno e non lo so nemmeno io, chi sono. Così devo sorbirmi il suo sguardo ebete e convinto, il suo tono arrogante, la sua espressione saccente, il suo abito nero da Man in Black che me lo fa odiare a pelle e che lo fa sentire il Re dei Ganzi nonostante somigli al Re dei Gonzi.
E’ lo stramaledetto fascino della divisa. Questo tizio si è messo l’abito nero e le cuffiette di Ambra in testa (solo che al cervello di Ambra almeno qualcuno parlava…) e all’improvviso non è più Mario Rossi, un tranquillo ragazzone di provincia che si tocca l’uccello beandosi dell’immagine taurina che lo specchio gli riflette. Non è più lo sfigatello che tutti evitano al bar e trovano le scuse più incredibili pur di non sorbirsi i suoi discorsi inutili e noiosi (“scusa, ma ho dimenticato il gas accesso”, “scusa, ma ho detto a mia madre che sarei tornato a casa presto”, “scusa, ma in televisione ci sono i mondiali di biglie su spiaggia e io sono un appassionato”…)…
Ora, con la divisa da becchino, lui non è Mario Rossi. E’ Super Mario, e invece di dare pugni sotto le gonadi di qualche tartaruga li dà nelle gonadi di un malcapitato che si era detto “E vaffanculo, settimana pesante… jeans e maglietta e le mie adidas belle comode e sono il re del mondo”…
“Selezione all’ingresso?” – io chiedo – “Ma che selezione? Darwiniana?”
Poi mi dico Ma bravo, fai lo spiritoso. Adesso ti dirà di non fare lo spiritoso. Poi mi dico Sì, dai, figurati se adesso capisce la battuta. Vuoi scommetterci cento sacchi? Affare fatto. Persi cento sacchi. La battuta non la capisce, ma comprende l’intento.
“Non fare lo spiritoso”, mi dice.
“Spiritoso? No, chiedevo a proposito della selezione. Devo superare un test per entrare? O che altro?”
Dice “Sai, qui ci si veste in un certo modo…”, guardandomi dall’alto in basso. Aggiunge “Serve un minimo di eleganza. Non si può entrare con le scarpe ginniche, per esempio…”
Le scarpe ginniche? Le scarpe ginniche???
Gli dico “In un certo modo? Eleganza? Io devo pagare 35 carte da lire mille per farmi dire se le mie scarpe vanno bene? Ma chi cazzo sei, il mio consulente dell’immagine? Ma se pago 35 sacchi voglio essere io a dirti se mi piacciono lo tue!”
Lui continua a mettermi una mano sul petto, come a volermi fermare. Io sono immobile, non sto andando da nessuna parte, ma lui continua a mettere quella mano e mi dice “Se sei venuto qui per litigare…”
“Per litigare? Ma se sei tu che hai detto che mi vesto alla cazzo…”
E mentre io e Capitan America bisticciamo, dietro di me passano le cose più incredibili che io abbia mai visto. Calzoni metallizzati, canottiere di rete aderenti, zeppe alte due metri… tutto indossato da tipi che dimenano le braccia al cielo in una sorta di ballo che pare una crisi epilettica. Ovviamente, indicano. Indicano, cazzo.
“Ma… è quelli?”, chiedo.
“Sono trendy”, mi risponde.
Per entrare in questo locale ho dovuto quindi implorare per alcuni minuti. Mi spiaceva far tornare a casa tutta la ciurma per colpa dei miei levis abbinati alle scarpe da ginnastica (“o uno o l’altro”, mi ha detto Terminator), e così ho mendicato un libero accesso in un locale del quale mi fregava meno di niente (“la prossima volta più eleganza, però”, mi ha ammonito Rambo mentre mi concedeva un po’ della sua magnanimità).
Ora eccomi qui, gomiti appoggiati al bancone, sguardo alla tizia scollata e scosciata e sudata che mi ha appena servito un avana club finto (è un bacardi, si capisce. quando chiedo avana club invecchiato sette anni non ce l’hanno mai, allora vogliono rifilarmi quello da tre, color piscia, o un bel bacardi scuro che tanto è lo stesso. vabbé, per voi sarà lo stesso, ma per me no… a me sto bacardi scuro fa schifo, tanto per essere precisi) e una musica così distante da tutto quello che ascolto solitamente che nemmeno riesco a capirla.
La cosa buffa è che quando dirò alla mia metà che sono stato in discoteca mi guarderà con quella faccia un po’ diffidente, immaginandomi sudato ed eccitato a ballare su un cubo toccandomi il pacco, probabilmente. Se invece mi vedesse adesso credo che mi ci manderebbe lei, in discoteca, due volte a settimana, tanto per farmi rimpiangere la solitaria e sicura vita a due…
Vado a mingere. Sono ubriaco e stonato e stanco e scazzato e.
Una pisciata mi farà bene, perché mi immergerà per qualche minuto in un frastuono più ovattato e leggero e potrò tirare il fiato.
Il cesso sembra un ambulatorio di emergenza in un campo profughi, con gente seduta a terra o che vomita in un lavandino o che piscia in caduta libera davanti a se tenendosi con i palmi delle mani al marmo che gli sta di fronte. Un tizio mi si avvicina e mi chiede qualcosa, ma non capisco niente di quello che dice, perché ha le mandibole tirate e parla come l’attore di scuola di polizia, quello che fa il criminale idiota. Poi trova un tipo che vende pastiglie varie e mi molla per andare da lui, così posso guardarmi intorno e vedere se tra vomiti e chiazze di urina e acqua nerastra sparsa in giro si trova un posto per farci dentro un po’ di pipì.
Attorno a me ballano tizi impasticcati. Sono ragazzi piuttosto giovani. Quelli meno giovani hanno tirato un po’ di coca. Si capisce perché sono più coordinati, hanno gli occhi lucidissimi, una certa sicurezza nel viso che si abbinerà al sorriso sensuale quando appoggeranno la mano sulla coscia di Tizia dicendole “Conoso un sacco di gente, lo sai? Tu puoi diventare qualcuna, te lo dico io…”
Non sono tutti così, per fortuna. Certi tirano la coca e basta, poi tornano a casa da soli.
Quando esco dal cesso la voglia di andarmene si è fatta così pressante che se non fossi qui con tre amici scapperei subito. Mentre mi incammino verso il bancone, dove mi piazzerò nuovamente immobile come un uccello impagliato, trovo un’ex collega di lavoro, fighissima nella sua minigonna e nel suo vestito attillato e nell’idea che le sue tette celate trasmettono di loro da una scollatura. Mi accorgo di come l’abito e il trucco cambino molto spesso ogni prospettiva, di come riescano a farti vedere sotto altri aspetti ed altre fantasie una persona che conosci così bene da esserti quasi indifferente, nel quotidiano.
Ci scambiamo praticamente tutti i luoghi comuni che conosciamo, dai “come ti va?” ai “e lì al lavoro com’è, sempre uguale?” fino ai “salutami tutti, mi raccomando”…
Ci congediamo l’una dall’altro baciandoci sulle guance, consapevoli entrambi che lei non saluterà nessuno e a me non fregherà un cazzo della cosa.
Bancone. Tipa scosciata e scollata e sudata. Bacardi invecchiato che sa di acqua e cartone. Una cubista che si dimena su un balcone sopra di me. Un figo che le balla accanto a torso nudo. Un gruppo di tizi che mi si agitano accanto, con gli occhiali da sole e i capelli sparati e l’indice rivolto verso l’alto. Un coglione ubriaco che mi finisce addosso, mi rovescia la merda che aveva nel bicchiere sui piedi e poi mi dice di stare più attento…
Butto lo sguardo da ogni parte per vedere se riesco a rintracciare gli amici e li scorgo non molto lontano, stanno chiacchierando con una tipa che forse conosco anch’io. Li raggiungo e scopro che parlano di sesso. 90 su 100, i ragazzi e le ragazze parlano di sesso, quando discutono tanto per cazzeggiare. Le ragazze con una sorta di onestà pulita, i ragazzi con l’eccitazione di chi vorrebbe spogliarsi e fornicare entro quindici secondi. Le prime raccontano ingenue, i secondi se le immaginano nude e in un letto. Con loro, ovviamente.
Mi avvicino e mi unisco al discorso. Cerco di essere almeno un po’ simpatico. A volte ci riesco, a dire il vero. Ci riesco quasi sempre, tanto per essere modesti. Parlo con la gente e mi accorgo che la gente si diverte con le mie battute stupide e tutto sommato sono felice.
C’è un momento, lo giuro, nel quale mi sto quasi divertendo. Riesco a scindere la musica assordante dalle nostre parole e siamo ancora noi, io e i miei amici di sempre, ubriachi e sorridenti. Ma sono le tre di notte e si torna a casa. Marco si sveglia presto, Enrico anche, Roberto pure. Sono io la mosca bianca, che quando tornerà a casa si siederà al computer e tirerà ancora fino alle sette del mattino, giochicchiando un po’ con le parole e le gif e icq e l’http e l’ftp e l’html e javascript e basta, ho sonno, vado a letto.
Sono io, costantemente io, il coglione che inizia a divertirsi sempre e solo quando le cose stanno finendo.
E così ci incamminiamo verso l’uscita. Un tizio ubriaco mi vola addosso e quasi cadiamo. Poi quando siamo di nuovo in equilibrio mi punta gli occhi contro, iniettati di sangue, mi fissa con sguardo di sfida e mi dice qualcosa di offensivo.
Lo osservo. E’ bianco, più bianco di me. Una sorta di cadavere ambulante, con una canottiera grigia e nera attillata e i capelli sparati verso l’alto, tinti di giallo, o comunque di un biondo così evidentemente falso da sembrare giallo. Ha gli occhiali da sole, come quasi tutti quelli che stanno qui dentro (poi per forza che vanno a cozzare ovunque…).
Lo guardo e mi sento vecchio, perché lui avrà vent’anni e io ne ho più di trenta e i dieci anni che ci dividono sono probabilmente un’eternità. Lo guardo e mi fa un po’ pena, con il suo viso slavato alla Sid Vicious e il suo abbigliamento da coglione che oggi lo fa sentire un gran figo e fra dieci anni se ne vergognerà (è successo anche a me…). Lo guardo e penso che probabilmente ha calato qualche pasticca, anche, tanto per divertirsi un po’ e ballare indicando con il dito come fanno tutti gli altri; per sentirsi diverso e ribelle e indipendente, come tutti gli altri. Lo guardo e mi accorgo che io e lui, anche se con percorsi diversi e mode diverse e droghe diverse e letture diverse e tutto diverso forse potremmo essere simili; io ci ho creduto un tempo, lui ci crede oggi.
Lo guardo e alla fine gli dico “Scusami, ero distratto”, raggiungo gli altri e ce ne andiamo via.