I dettagli sono importanti

La vita non è poi così brutta, ma definirla bella lo trovo poco corretto. Se l’essenza delle cose sta nei dettagli, a me capita troppo spesso di trovarmi di fronte a dettagli sbagliati.

Perché se vado al self service per fare benzina l’unico stramaledetto deca che ho in tasca è anche l’unico stramaledetto deca che la macchinetta non accetta?

E perché se voglio prendermi una coca al distrubutore delle bibite che c’è in metropolitana, il suddetto funziona solo a moneta se ho banconote e solo a banconote se ho moneta?
E perché se servono 2000 lire in moneta io ho solo 1950? E perché se ho 2000 lire esatte in moneta una merdosissima monetina da 50 lire continuerà a scendere senza possibilità che il distributore la accetti? E perché questa dannata monetina si rivela solo quando ho già infilato le altre 1950 lire?

Perché nei distributori di sigarette il resto massimo è 3000 lire? Perché, perché, perché? Se ho quello stramaledetto deca che mi ha rifiutato il self service della benza non lo posso usare nemmeno qui. Per un pacchetto di sighe è troppo poco, per due non basta. Devo sempre sperare che ci siano le cicche e comprarmi un pacchetto anche di quelle.

Perché a volte le sigarette mi finiscono in bocca al contrario e quando le accendo le ciglia mi prendono fuoco insieme al filtro e do una boccata di roba che ha il gusto di sottilette fuse nella loro stessa plastica?

Perché lavoro intrippato al computer per un’ora di fila continuando a pensare “adesso salvo” “adesso salvo” e quando sto davvero per salvare il computer va in palla e devo riavviare?

Perché se indosso una cosa bianca si sporca nei dieci minuti seguenti?

Perché se c’è una sola pozzanghera nel raggio di un chilometro io ci parcheggio la macchina proprio di fianco, lato guida, e ci atterro fino alle caviglie quando scendo?

Perché se c’è un tempo di merda e dico “rischio” uscendo senza ombrello appena sono abbastanza lontano da casa arriva il diluvio universale? E perché se invece l’ombrello lo prendo poi esce il sole e mi devo tenere l’ombrello tra i coglioni per tutto il giorno?

Perché se esco con il cellulare non mi chiama nessuno ed è solo una rottura di scatole perché non so mai dove metterlo e se lo lascio a casa mi telefonano in cento?

Perché quando ho comprato il mio pc il processore massimo era a 900mhz e mentre lo portavo a casa è uscito il 1000mhz e mentre pensavo se prendere il 1000 è uscito il 1200 e mentre mi convincevo a prendere il 1200 usciva il 1300 e mentre entravo in negozio per comprare il 1300 è uscito il 1400?

E perché se finisco il linquido lavavetri dieci piccioni mi cagano sul vetro e inizierà a piovigginare acqua terrosa?

Perché se finisce l’acqua calda mentre faccio la doccia finisce proprio quando sono insaponato e non un attimo prima o un attimo dopo?

E perché se vado al cinema, anche se fossimo SOLO IN DUE quello più alto di noi due si siederà davanti a me?

Perché i carelli dei supermercati hanno le rotelline che vanno per i cazzi loro e quando ho il carrello pieno devo sembrare un povero impedito per riuscire a portarlo fino alla macchina?

Perché d’estate in metropolitana o sul treno non riesco mai ad abbassare un solo finestrino e d’inverno sono tutti spalancati e non riesco ad alzarli?

Perché posso passare le mani per due ore sotto a quei soffioni d’aria calda che sostituiscono l’asciugamano e non si asciugeranno mai? E perché le fotocellu le dei lavandini sono nascoste in un posto segreto e devo masturbare il rubinetto per riuscire a fare uscire dell’acqua? E perché gli sciacquoni delle turche devono essere settati a “cascata del niagara” e ogni volta che tiro l’acqua il getto mi inonda fino alla cintola?

E perché se vado nel cesso di un locale pubblico quando mi lavo le mani l’acqua mi schizza sempre e solo sulla patta dei calzoni?

Perché in tutte le macchine che ho avuto il portacenere è sempre nel posto più scomodo in assoluto e per buttare la cenere posso scegliere tra: spargerla per l’abitacolo, fare un incidente mortale o scalare in seconda per levarmi il manico del cambio dai coglioni e individuare il posacenere?

Perché se cerco Altavista PUNTO COM, o Google PUNTO COM o Stocazzo PUNTO COM mi devono fare quel dannato redirect al PUNTO IT? Voglio il punto COM. COM, dannazione. COM, COM e poi ancora COM e il vostro redirect for dummies mi fa solo incazzare!

Perché l’acqua calda, dal rubinetto, inizia ad uscire calda quando ormai ho finito di lavarmi le mani?

Perché quando installo un sistema operativo un’ora me la perde a sbattermi sul computer un giga di drivers e software aggiuntivo e poi quando attacco qualunque cosa (scanner, stampanti…) non funziona mai niente e perdo tre ore sulla rete a cercare drivers funzionanti e tips & tricks?

Perché?

Cose mie, L'internet

Discoteca

Eppure ho una trentina d’anni. La fascia d’età la condivido con il 70% di quelli che stanno attorno a me. Indi, perché non mi diverto?
Perché non sento dentro quella forza che mi dovrebbe condurre a saltellare in pista e mettermi di fronte alla consolle, ingobbito, sorridente, muovendo ritmicamente la testa, alzando il braccio e puntando il dito indice annuendo? Perché non mi succede, dannazione? Almeno potrei capire che cosa cazzo indicano.

Per tutto ciò io soffro. C’è una sorta di diversità che se a volte puoi fingere di vederla come la chiave di lettura della tua superiorità, molto spesso ti fa solo invidiare il tizio che scrolla la testa, accanto a te. Bello sudato e soddisfatto. Sfatto. Fatti, non parole. Lui, si sta divertendo. Io mi sto rompendo le palle.
Prima, tra l’altro, ho litigato con il buttafuori. Sto per entrare tranquillo e beato quando una mano grande come la mia testa si piazza tra me e il paese dei balocchi.
“Scusa, ma qui c’è selezione all’ingresso”, mi dice il gigante; il padrone della mano, l’incredibile Hulk, solo un po’ più pallido.
E mi guarda con quell’espressione di superiorità che mi dà veramente sui nervi. E’ l’unico caso nella mia vita nel quale vorrei essere qualcuno solo per potergli dire Lei non sa chi sono io! Purtroppo non è l’unico a non saperlo. Non lo sa nessuno. Non sono nessuno e non lo so nemmeno io, chi sono. Così devo sorbirmi il suo sguardo ebete e convinto, il suo tono arrogante, la sua espressione saccente, il suo abito nero da Man in Black che me lo fa odiare a pelle e che lo fa sentire il Re dei Ganzi nonostante somigli al Re dei Gonzi.
E’ lo stramaledetto fascino della divisa. Questo tizio si è messo l’abito nero e le cuffiette di Ambra in testa (solo che al cervello di Ambra almeno qualcuno parlava…) e all’improvviso non è più Mario Rossi, un tranquillo ragazzone di provincia che si tocca l’uccello beandosi dell’immagine taurina che lo specchio gli riflette. Non è più lo sfigatello che tutti evitano al bar e trovano le scuse più incredibili pur di non sorbirsi i suoi discorsi inutili e noiosi (“scusa, ma ho dimenticato il gas accesso”, “scusa, ma ho detto a mia madre che sarei tornato a casa presto”, “scusa, ma in televisione ci sono i mondiali di biglie su spiaggia e io sono un appassionato”…)…
Ora, con la divisa da becchino, lui non è Mario Rossi. E’ Super Mario, e invece di dare pugni sotto le gonadi di qualche tartaruga li dà nelle gonadi di un malcapitato che si era detto “E vaffanculo, settimana pesante… jeans e maglietta e le mie adidas belle comode e sono il re del mondo”…
“Selezione all’ingresso?” – io chiedo – “Ma che selezione? Darwiniana?”
Poi mi dico Ma bravo, fai lo spiritoso. Adesso ti dirà di non fare lo spiritoso. Poi mi dico Sì, dai, figurati se adesso capisce la battuta. Vuoi scommetterci cento sacchi? Affare fatto. Persi cento sacchi. La battuta non la capisce, ma comprende l’intento.
“Non fare lo spiritoso”, mi dice.
“Spiritoso? No, chiedevo a proposito della selezione. Devo superare un test per entrare? O che altro?”

Dice “Sai, qui ci si veste in un certo modo…”, guardandomi dall’alto in basso. Aggiunge “Serve un minimo di eleganza. Non si può entrare con le scarpe ginniche, per esempio…”
Le scarpe ginniche? Le scarpe ginniche???
Gli dico “In un certo modo? Eleganza? Io devo pagare 35 carte da lire mille per farmi dire se le mie scarpe vanno bene? Ma chi cazzo sei, il mio consulente dell’immagine? Ma se pago 35 sacchi voglio essere io a dirti se mi piacciono lo tue!”
Lui continua a mettermi una mano sul petto, come a volermi fermare. Io sono immobile, non sto andando da nessuna parte, ma lui continua a mettere quella mano e mi dice “Se sei venuto qui per litigare…”
“Per litigare? Ma se sei tu che hai detto che mi vesto alla cazzo…”
E mentre io e Capitan America bisticciamo, dietro di me passano le cose più incredibili che io abbia mai visto. Calzoni metallizzati, canottiere di rete aderenti, zeppe alte due metri… tutto indossato da tipi che dimenano le braccia al cielo in una sorta di ballo che pare una crisi epilettica. Ovviamente, indicano. Indicano, cazzo.
“Ma… è quelli?”, chiedo.
“Sono trendy”, mi risponde.

Per entrare in questo locale ho dovuto quindi implorare per alcuni minuti. Mi spiaceva far tornare a casa tutta la ciurma per colpa dei miei levis abbinati alle scarpe da ginnastica (“o uno o l’altro”, mi ha detto Terminator), e così ho mendicato un libero accesso in un locale del quale mi fregava meno di niente (“la prossima volta più eleganza, però”, mi ha ammonito Rambo mentre mi concedeva un po’ della sua magnanimità).

Ora eccomi qui, gomiti appoggiati al bancone, sguardo alla tizia scollata e scosciata e sudata che mi ha appena servito un avana club finto (è un bacardi, si capisce. quando chiedo avana club invecchiato sette anni non ce l’hanno mai, allora vogliono rifilarmi quello da tre, color piscia, o un bel bacardi scuro che tanto è lo stesso. vabbé, per voi sarà lo stesso, ma per me no… a me sto bacardi scuro fa schifo, tanto per essere precisi) e una musica così distante da tutto quello che ascolto solitamente che nemmeno riesco a capirla.
La cosa buffa è che quando dirò alla mia metà che sono stato in discoteca mi guarderà con quella faccia un po’ diffidente, immaginandomi sudato ed eccitato a ballare su un cubo toccandomi il pacco, probabilmente. Se invece mi vedesse adesso credo che mi ci manderebbe lei, in discoteca, due volte a settimana, tanto per farmi rimpiangere la solitaria e sicura vita a due…

Vado a mingere. Sono ubriaco e stonato e stanco e scazzato e.
Una pisciata mi farà bene, perché mi immergerà per qualche minuto in un frastuono più ovattato e leggero e potrò tirare il fiato.
Il cesso sembra un ambulatorio di emergenza in un campo profughi, con gente seduta a terra o che vomita in un lavandino o che piscia in caduta libera davanti a se tenendosi con i palmi delle mani al marmo che gli sta di fronte. Un tizio mi si avvicina e mi chiede qualcosa, ma non capisco niente di quello che dice, perché ha le mandibole tirate e parla come l’attore di scuola di polizia, quello che fa il criminale idiota. Poi trova un tipo che vende pastiglie varie e mi molla per andare da lui, così posso guardarmi intorno e vedere se tra vomiti e chiazze di urina e acqua nerastra sparsa in giro si trova un posto per farci dentro un po’ di pipì.
Attorno a me ballano tizi impasticcati. Sono ragazzi piuttosto giovani. Quelli meno giovani hanno tirato un po’ di coca. Si capisce perché sono più coordinati, hanno gli occhi lucidissimi, una certa sicurezza nel viso che si abbinerà al sorriso sensuale quando appoggeranno la mano sulla coscia di Tizia dicendole “Conoso un sacco di gente, lo sai? Tu puoi diventare qualcuna, te lo dico io…”
Non sono tutti così, per fortuna. Certi tirano la coca e basta, poi tornano a casa da soli.

Quando esco dal cesso la voglia di andarmene si è fatta così pressante che se non fossi qui con tre amici scapperei subito. Mentre mi incammino verso il bancone, dove mi piazzerò nuovamente immobile come un uccello impagliato, trovo un’ex collega di lavoro, fighissima nella sua minigonna e nel suo vestito attillato e nell’idea che le sue tette celate trasmettono di loro da una scollatura. Mi accorgo di come l’abito e il trucco cambino molto spesso ogni prospettiva, di come riescano a farti vedere sotto altri aspetti ed altre fantasie una persona che conosci così bene da esserti quasi indifferente, nel quotidiano.
Ci scambiamo praticamente tutti i luoghi comuni che conosciamo, dai “come ti va?” ai “e lì al lavoro com’è, sempre uguale?” fino ai “salutami tutti, mi raccomando”…
Ci congediamo l’una dall’altro baciandoci sulle guance, consapevoli entrambi che lei non saluterà nessuno e a me non fregherà un cazzo della cosa.

Bancone. Tipa scosciata e scollata e sudata. Bacardi invecchiato che sa di acqua e cartone. Una cubista che si dimena su un balcone sopra di me. Un figo che le balla accanto a torso nudo. Un gruppo di tizi che mi si agitano accanto, con gli occhiali da sole e i capelli sparati e l’indice rivolto verso l’alto. Un coglione ubriaco che mi finisce addosso, mi rovescia la merda che aveva nel bicchiere sui piedi e poi mi dice di stare più attento…
Butto lo sguardo da ogni parte per vedere se riesco a rintracciare gli amici e li scorgo non molto lontano, stanno chiacchierando con una tipa che forse conosco anch’io. Li raggiungo e scopro che parlano di sesso. 90 su 100, i ragazzi e le ragazze parlano di sesso, quando discutono tanto per cazzeggiare. Le ragazze con una sorta di onestà pulita, i ragazzi con l’eccitazione di chi vorrebbe spogliarsi e fornicare entro quindici secondi. Le prime raccontano ingenue, i secondi se le immaginano nude e in un letto. Con loro, ovviamente.

Mi avvicino e mi unisco al discorso. Cerco di essere almeno un po’ simpatico. A volte ci riesco, a dire il vero. Ci riesco quasi sempre, tanto per essere modesti. Parlo con la gente e mi accorgo che la gente si diverte con le mie battute stupide e tutto sommato sono felice.

C’è un momento, lo giuro, nel quale mi sto quasi divertendo. Riesco a scindere la musica assordante dalle nostre parole e siamo ancora noi, io e i miei amici di sempre, ubriachi e sorridenti. Ma sono le tre di notte e si torna a casa. Marco si sveglia presto, Enrico anche, Roberto pure. Sono io la mosca bianca, che quando tornerà a casa si siederà al computer e tirerà ancora fino alle sette del mattino, giochicchiando un po’ con le parole e le gif e icq e l’http e l’ftp e l’html e javascript e basta, ho sonno, vado a letto.

Sono io, costantemente io, il coglione che inizia a divertirsi sempre e solo quando le cose stanno finendo.

E così ci incamminiamo verso l’uscita. Un tizio ubriaco mi vola addosso e quasi cadiamo. Poi quando siamo di nuovo in equilibrio mi punta gli occhi contro, iniettati di sangue, mi fissa con sguardo di sfida e mi dice qualcosa di offensivo.
Lo osservo. E’ bianco, più bianco di me. Una sorta di cadavere ambulante, con una canottiera grigia e nera attillata e i capelli sparati verso l’alto, tinti di giallo, o comunque di un biondo così evidentemente falso da sembrare giallo. Ha gli occhiali da sole, come quasi tutti quelli che stanno qui dentro (poi per forza che vanno a cozzare ovunque…).
Lo guardo e mi sento vecchio, perché lui avrà vent’anni e io ne ho più di trenta e i dieci anni che ci dividono sono probabilmente un’eternità. Lo guardo e mi fa un po’ pena, con il suo viso slavato alla Sid Vicious e il suo abbigliamento da coglione che oggi lo fa sentire un gran figo e fra dieci anni se ne vergognerà (è successo anche a me…). Lo guardo e penso che probabilmente ha calato qualche pasticca, anche, tanto per divertirsi un po’ e ballare indicando con il dito come fanno tutti gli altri; per sentirsi diverso e ribelle e indipendente, come tutti gli altri. Lo guardo e mi accorgo che io e lui, anche se con percorsi diversi e mode diverse e droghe diverse e letture diverse e tutto diverso forse potremmo essere simili; io ci ho creduto un tempo, lui ci crede oggi.

Lo guardo e alla fine gli dico “Scusami, ero distratto”, raggiungo gli altri e ce ne andiamo via.

Cose mie

Del traffico, dei motori, dei pedoni

note: il correttore automatico di word è la più grossa minchiata che io abbia mai visto in vita mia. ciò premesso, vogliate scusarmi per le parole “mischia” e “ciglioni” che potrebbero apparirvi senza una logica nel testo. per una comprensione corretta, vanno sostituite con i vocaboli, tra l’altro più eleganti, “minchia” e “coglioni“.

Da quando vivo a Milano (o comunque ci vivo buona parte della mia vita), la mia esistenza automobilistica è minata continuamente da nuove insidie che, in quanto paesano campagnolo rozzo, nemmeno immaginavo.
In paese, se telefono a un mio amico per chiedergli dov’è e mi risponde che è al bar, gli dico “Prendo la macchina e fra due minuti sono lì”; a Milano, gli dico “Mi ripeti la via? Anche il nome, per favore, che lo metto nel navigatore satellitare. Prendo la macchina e tra un paio d’ore sono lì”.
Inoltre, nel paesino non c’è il lavaggio strade, che una sera alla settimana ti fa parcheggiare la macchina in posti così lontani che se fossi in paese, per andarci, prenderei la macchina.
E non ci sono i binari del tram. La prima volta che sono stato in macchina a Milano avrò avuto vent’anni. Sono arrivato in Via Certosa con la mia Y 10 e c’erano queste strade enormi, così giù ad accelerare da bravo cazzone (per quel che si poteva con la Y 10)… Poi appena ho beccato i binari del tram e ci sono finito dentro ho come perso il controllo del mezzo e credo di aver fatto seicento metri direttamente guidato dai binari.
Il massimo sono binari del tram abbinati al pavé: se ci finisci dentro con un litro di latte ci esci con un paio di mozzarelle.

In paese, infine, non trovare parcheggio significa doverla parcheggiare a cento metri da dove si deve andare, che è una signora distanza, per la quale l’imprecazione è più che giustificata. In città, cento metri te li sogni, e duecento sono un dono piovuto dal cielo. Ma anche trecento, quattrocento, cinquecento… e via, fino al chilometro. E la distanza diventa un problema del tutto trascurabile, rapportata al tempo per trovare quel bastardissimo spazietto vuoto. Non so quando morirò, ma di certo so come: cercando un parcheggio. L’altro giorno l’ho parcheggiata su un marciapiede per la disperazione, dopo essermi accorto che era almeno la terza volta che ripartiva il cd nell’autoradio da quando avevo iniziato a cercare.

Comunque non è il non trovare parcheggio a farmi incazzare veramente, quanto il constatare che un secondo prima ce n’era una libero e lo ha appena occupato un altro. Arrivi in queste piazze strapiene di parcheggi occupati e incroci sempre questo tizio che sta scendendo dalla macchina appena parcheggiata. Si accende una sigaretta e si incammina via godendosela. Maledetto bastardo.

E’ nel traffico, però, che si consuma inesorabile il mio sistema nervoso. In queste code infinite, ingorghi, intoppi… a qualunque ora del giorno e della notte. In paese, alle tre del pomeriggio di un giorno d’inverno, potrei uscire di casa nudo con una tromba nel culo tranquillo di non essere visto. A Milano, l’unica volta che sono riuscito ad accelerare in tangenziale erano le quattro e mezza di un martedì notte. Ma dove minchia vanno tutti?
Per non impazzire, ho cominciato a passare il tempo nel traffico osservando il mondo intorno a me e ho scoperto che i nemici di noi poveri e inermi automobilisti sono principalmente una quindicina, ben divisi fra pedoni, motorini e motorette e automobilisti.

pedoni

L’INDIFFERENTE
Passa col rosso e cammina come se niente fosse, dritto e imperturbabile, con la testa leggermente bassa, ma solo in rispetto dei suoi pensieri profondi. Non per la vergogna d’essere uno stolto, come invece apparirebbe molto più logico. Il fatto che tra un ometto rosso e l’altro ci siano delle strisce pedonali disegnate gli fa credere di camminare tra pareti trasparenti che lo ripareranno dal mondo.

SCUSATE, SONO UN COGLIONE
Fa la stessa cosa di quello sopra, ovvero passa con il rosso, ma ne è consapevole e allora con le braccia fa gesti di scuse, si ferma a metà del percorso per evidenziare le scuse, ferma metaforicamente la tua macchina con la mano e dopo dieci minuti di questa agonia ha finalmente attraversato la strada. E’ convinto che ammettere la colpa la annulli, mentre non sa che spero per tutto il tempo che dall’altra parte arrivi uno e lo travolga.

L’OCHETTA
Vede che il semaforo diventa rosso, se ne fotte e si precipita lo stesso, poi però si trova in mezzo a quattrocento macchine e allora, per lo spavento, si blocca in mezzo alle strisce, fermando il traffico per mezz’ora, guardando spaesata e buttando gli occhi ovunque, con la tipica espressione che annuncia uno stridulo “ma io…”.

IL FICONE
Lo sa che è rosso, ma se ne sbatte i coglioni, lui. Sta camminando mano nella mano con la sua donna e deve dimostrarle continuamente la sua forza e il suo disprezzo del pericolo. Ma, a ben pensarci, quale pericolo? Chiunque, infatti, vedendolo precipitarsi ad attraversare col rosso, ma con quella sua bella faccia da cazzo che mostra il grugno duro al dio Ra e il petto da tacchino alla città, si fermerà immantinente per lasciarlo camminare tra inchini e cappelli levati.

LA FICONA
Lei passa, tanto è figa. Cazzo gliene frega? Anzi, i maschietti potrebbero cogliere la palla al balzo per dedicarsi a una pratica onanistica, mentre osservano il suo passaggio. Stangona, tette sode, cosce al vento, lei passa dritta e sicura del suo successo nei confronti del pubblico automobilistico maschile. Le donne dovrebbero ammutolirsi, fermarsi e ringraziarla per questi cinque minuti di rivalsa femminile nella fallocrazia stradale, invece.

LA VECCHIETTA
Fatta del “rispetto per gli anziani” una bandiera, se l’è messa a mantello e con tutte le regole ci si è candidamente forbita il culo. Il semaforo resta materia da giovani, questi drogati capelloni che vanno in giro con sciacquette mezze nude. Per lei, ormai è tempo di vendetta. Se c’è il verde tanto meglio, sennò si passa lo stesso, con quel visino un po’ triste e un po’ allegro. Triste perché gli anni passano, allegro perché finalmente può fare il cazzo che le pare.

FERMI TUTTI, PASSO IO!
Quello che si mette in mezzo alla strada e con la mano ferma le macchine perché sta passando lui. Manco fosse Batman che sta andando a sventare una rapina. Tra questi, ci sono anche un po’ di ficoni, quando proprio sono al massimo della forma.

QUELLO CHE MENA
Già per il fatto che i vostri occhi si sono incrociati, sta pensando seriamente di trascinarti giù dalla macchina e spaccarti la faccia. E questo per cominciare. Ora, se lo lasci passare con il rosso fermandoti senza inchiodare (se no si gira, ti prende a pugni il cofano e ti urla “Calma, ma non lo vedi che ci sono le strisce?”) e accendendoti una sigaretta soddisfatto (si deve proprio capire che stai pensando “Oh, finalmente mi posso fermare e accendermi questa agognata sigaretta”), questi se ne andrà felice. Ma se inchiodi, imprechi e, madre di tutti gli errori, suoni… in questo caso l’epilogo oscillerà tra la mezz’ora più brutta della tua vita ai cinque giorni di ospedale.

moto e motorini:

007 IN MISSIONE
Zigzaga tra le macchine a tutta birra, ti passa a un centimetro dallo specchietto e a tre millimetri dal cofano un secondo dopo. E’ come avere una mosca nell’abitacolo. Qui invece è una vespa, fuori dall’abitacolo. Non sai più dove cazzo guardare e alla fine, stremato, ti metti in un angolino e speri che ce la faccia a passare e sparisca per sempre dalla tua vita.

L’INCREDIBILE HULK
Ha una graziella a motore, ma sta a centro corsia come se avesse un TIR. Dritto/a e imperturbabile, il/la motociclista ha occhi solo per strada e orecchie ben tappate, quindi né abbaglianti né strombazzate lo/la faranno spostare. Il giusto sta nel mezzo, ed è lì che rimarrà, con voi dietro a sfogliare giornali o a cuocere crepes. Nella versione “Le meraviglie della natura”, a guidare la motoretta sarà una fanciulla con le orecchie di pelo appiccicate al casco (che a quanto pare è la bazza del momento), che faranno sembrare il tutto ancora più una presa per il culo.

IL FIGLIO DI TOGNI
Ti si accosta al semaforo e al verde sfreccia con un’impennata che ti lascia immerso in una nuvola di fumo, per poi partire tossendo e ritrovartelo davanti che sta ancora sfoggiando la sua penna, mentre speri di non dover spiegare alla polizia come mai ti è finito sul cofano.

automobili:

MI METTO IN SECONDA CORSIA CHE E’ VUOTA
A quindici/venti all’ora, con una bella sigarettina di quelle fini da fumare in santa pace, con dietro una coda che nemmeno al funerale della regina madre… Questi amano andar piano e tranquilli – ed è giusto così – però preferiscono farlo nella corsia di quelli che vanno un po’ più veloci. Mica per dispetto, tra l’altro. No, anzi… se uno dietro lampeggia o suona si offendono anche un po’.

L’INDECISO
Parente dei sopra menzionati, in preda a una grande indecisione resta al centro delle due corsie (nelle autostrade, i più bravi riescono a stare al centro di tre corsie). Fargli notare la cosa lo manderebbe inutilmente in panico. Non solo resterebbe al centro, ma rallenterebbe in preda a dubbi e timori sul perché dei vostri segnali.

SPECIAL COMBO: I GEMELLI SIAMESI
Strada a due corsie. Nella corsia lenta c’è uno lento, e in quella di sorpasso un coglione lento anche lui. Tu stai dietro, e non passi più. Non passi più, maledizione! E attraverso i loro lunotti vedi che davanti a te c’è una strada completamente vuota, che la distanza temporale tra te e la meta potrebbe essere di un solo minuto. Invece devi stare dietro a questi meledetti stronzi affiancati.

IL FRATELLO DI SCHUMAKER
Ti sta appiccicato al culo e ogni tanto accelera anche, per farti capire che lui è uno che va e non ha tempo da perdere. Il fatto che tu possa avere davanti un tram, una coda di quaranta macchine o un gruppetto di bambini che sta attraversando le strisce è irrilevante. Lo sa, ma non può tenere per se il suo nervosismo. Te lo deve comunicare a due tre centimetri dal culo.

LE FRECCE LE USANO GLI INDIANI
Frecce? No, grazie. Con questo motto, i cazzoni girano mentre li stai sorpassando, si inchioda tutti in allegria e ci si pianta in un casino di macchine che ti passano a destra e a sinistra, tutti e due immobili come dei cretini, ad aspettare lui il rosso di qualcuno per sgattaiolare via, e tu che lui sgattaioli per levarti dalle balle.

ANDALE ANDALE, ARIBA ARIBA!
Con questo grido alla Speedy Gonzales si immette su una strada principale uscendo da una strada secondaria mentre tu stai arrivando a 180 all’ora. Esce scattante, come se avesse una premura bestiale… e poi si piazza davanti a te a 30 all’ora. E tu impazzisci.

LA CALMA E’ LA VIRTU’ DEI FORTI
C’è sempre qualcuno che va sulle statali a 15 all’ora, e gli arrivi a culo proprio mentre dall’altra parte stanno arrivando due funerali, un matrimonio e un’altra ventina di macchine. E tu gli resti dietro e impazzisci. Non puoi sorpassarlo. Lui è lento, quasi immobile. E ogni tanto frena. Così, senza un motivo apparente. Vedi i fari rossi degli stop che gli si illuminano e non capisci il perché.
E pensi: “Ma cosa cazzo frena?”
E urli: “Ma cosa cazzo freni?!”

Tra l’altro, c’è una regola alla quale non si scappa: se sei dietro a una macchina che va a 15 all’ora in una strada tutta curve, deserta… appena appare un rettilineo nel quale sorpassare si materializzano trenta macchine che arrivano dall’altro senso. Ma non solo macchine: camion, moto, trattori, carrarmati…
Poi ancora 30 km di strada tutta curve a gomito con visibilità zero e completamente deserta, poi rettilineo con macchine, autobus e giro d’Italia dall’altro senso, ancora curve a gomito su strada deserta… e via così, a oltranza.

SCHERZETTO!
Mi metto davanti a te nella fila di destra però devo andare a sinistra, eh eh.

Cose mie, Uomini & Donne

Ipermarket

Questo è un pezzo scritto nel 96, prima che arrivasse ciniconet e prima che potessi pensare che un giorno qualcuno l’avrebbe mai letto. Una prima versione era stata scritta sui fogli di un blocco notes in ufficio, quando ancora lavoravo tra i colletti bianchi e nello specifico stavo passando una serata ad aspettare un camion con del materiale urgente (mi occupavo di logistica, di magazzini, di altre cose del genere). L’ho rimaneggiato nei giorni seguenti, l’ho battuto al computer e infine è riapparso all’improvviso, mentre mettevo ordine nei miei hard disk.
Non è tra le cose migliori che ho scritto. Quanto a stile, poi, non ne ha. Però l’argomento mi piace, e sebbene io negli anni sia un po’ cambiato, lo ritengo sempre valido e vicino al mio pensiero. Quindi eccolo qui.

I carrelli mi finiscono addosso e i bambini mi finiscono addosso e gli adulti mi finiscono addosso e alla fine non posso fare altro che odiare l’intero mondo. E’ normale, no?
Corrono da una parte all’altra come oche, in maniera del tutto casuale e disordinata. Stanno guardando dei surgelati del cazzo e un secondo dopo buttano l’occhio sui biscotti appoggiati proprio sulla mensola dietro alla mia schiena. E allora ci si fiondano sopra come condor, come se quella fosse l’ultima stramaledettissima scatola di biscotti presente sulla faccia della terra, ambita dalla popolazione intera. Infilano quelle dannate manacce nello scaffale e mi fanno rimbalzare via, senza nemmeno un “permesso” prima oppure uno “scusi” dopo.
Tra l’altro, nel centro commerciale dove vado a torturarmi settimanalmente, hanno fatto questa bella scoperta di mettere all’ingresso carrelli minuscoli per bambini. Come sono carini. Hanno persino una bandiera con un’asta lunga un metro, che si infila immancabilmente nella mia schiena quando i tesorini mi raggiungono. Tutti questi bambini che girano come cani prima repressi a una catena e poi sciolti, mi schiaffano il metallo freddo e duro nelle caviglie e ridono. Ridono e non c’è nemmeno un genitore, lì in giro, a prenderseli per un braccio e a portarseli via, a sgridarli, ad ammonirli, a dir loro che non si fa, non si possono frantumare le palle del prossimo già dopo poco anni di esistenza terrena.
Macché, delegano tutto alla pazienza umana. Io faccio quel che posso, sferzando loro delle belle pedate sui fragili piedini o sul carrello, cercando di decentrarlo dalla loro presa e slogargli magari un polso, ma non è che posso girarmi l’ipermercato per cercarli tutti; faccio quel che posso, appunto.

E’ una sorta di tortura, questa del centro commerciale. Una delle tante torture, mica l’unica. Così, cerco di sbrigarmi. Riempio il carrello senza guardare i prezzi – cosa che invece dovrei fare date le possibilità economiche – e mi porto alla cassa immergendomi in quella dannata coda di altre anime furiose, che ucciderebbero per passarti davanti, che ti si parano d’innanzi e ti fanno vedere che loro hanno solo due o tre articoli e tu invece hai il carrello pieno, che li potresti far passare, no?
No, certo che no.
Non vi farei passare davanti nemmeno se foste moribondi. Anzi, ora che lo so, cercherò di ritardare il più possibile la posa degli articoli sul nastro scorrevole di gomma, nera e sudicia per via di tutte le scatole che si sono rotte lì sopra.

Mi avvicino ai salami e ne prendo un paio, schiaffeggiando prima la mano di un bambino che sta toccando tutti gli insaccati. Altro vizio per il quale meritano di essere messi alla gogna: mani in bocca, mani sul cibo, mani in bocca, mani su dell’altro cibo… oppure arraffano e buttano nei carrelli. Se sei fortunato, non nel tuo, ma di quello che ti sta accanto. Se sei fortunatissimo, in quello dei suoi genitori. Se ti ha baciato la Dea Fortuna, i suoi se ne accorgeranno solo dopo aver pagato, di essersi comprati la ventresca da venti carte e il salmone rosso russo da quaranta. Se non insegnerà l’educazione al figlio, la insegnerà a loro.
Poi, alla cassa, c’è questo tizio che lascia cadere a terra una bottiglia di vodka al melone e io la guardo precipitare e la osservo fotogramma per fotogramma, come fosse la moviola di un’azione calcistica. Ma non va al rallentatore, vola invece a terra a tutt’altra velocità e un solo secondo dopo i vetri sono proiettili che mi finiscono di un centimetro sopra le adidas stan smith, proprio dalle parti delle caviglie, seguiti dalla nauseante mistura appiccicosa che la bottiglia conteneva. Ovviamente, non seguono le scuse. Il tale le fa alla cassiera. Cosa vuoi che gliene freghi alla cassiera, se spacchi una bottiglia di melonvodka del cazzo? Le scuse le devi fare a me, perché la melonvodka del cazzo ce l’ho per metà sulle scarpe e sulle calze, insieme ai cocci appiccicosi del vetro opaco.

E finalmente sono fuori da questo marasma e butto la roba nel baule della panda mentre litigo con un senegalese che vuole vendermi nell’ordine: accendino (un classico), spugne, musicassette, ciddì musicali, dvd masterizzati con le prime visioni, giochi playstation, un elefante di legno originale (originale decché, poi?), un cellulare finto con seicento musichette diverse preimpostate, un braccialetto della fortuna (altro classico) oppure, al limite, un bel paio di bonghi grandi come la mia cucina. Quando ho finalmente finito di riporre il tutto nella macchina, il senegalese mi chiede il carrello. Io mi volto a guardare il chioschetto di ferro dove si vanno a posare i carrelli per riprendersi le cinquecento lire. Un chilometro, più o meno, mi divide da lui.
Passo il carrello tra le mani del senegalese che ringrazia felice e sono felice anch’io d’aver fatto una buona azione. Ogni volta mi fanno incazzare e ogni volta, quando li vedo andar via tristi mi sento uno stronzo totale. SONO, uno stronzo totale, perché l’ho trattato come un rompicoglioni e non è un rompicoglioni. I rompicoglioni erano quelli là dentro e i loro figli viziati. Questo si fa insultare dagli stronzi come me per vendere un elefante di legno e campare anche per oggi.

Infine c’è il traffico, ovviamente. Non è che si può uscire dal centro commerciale alle otto di sera e sperare di percorrere la strada in solitaria. Mi faccio i miei bei due o tre chilometri di coda per via di un trattore che sta all’origine, bastardo maledetto, e dietro al quale tre cretini che non sanno sorpassare hanno dato vita a questo meraviglioso serpente di lamiere luminescenti. Poiché la ricetta della coda non prevede un cretino soltanto, ma più persone. Un trattore per esempio che dà il via, poi uno stolto che gli arriva dietro ma non se la sente di sorpassare, poi un altro ancora che non se la sente (dioscherziamo?) di sorpassare ben due veicoli in un colpo solo. E così arriva il terzo, che magari sorpasserebbe pure, poveretto, ma davvero adesso l’ingombro che ha davanti è troppo lungo e le automobili provengono anche dall’altra parte; lui poi ha una macchina che fa quel che può… E insomma, uno alla volta gli altri si accodano, sempre più motivati a starsene dove sono.
Io, dietro, ho uno che deve essere ubriaco, per giunta. O fumato o flippato per qualche altro motivo. Ogni tanto si porta così a destra da dare una spuntata alla riva erbosa, mentre poco dopo tiene la sinistra un po’ troppo alla sinistra, facendosi lampeggiare e strombazzare da chi arriva dall’altra parte. Questo è il minimo: tiene anche una distanza dal mio culo decisamente preoccupante. Lo guardo dallo specchietto retrovisore e mi sale il panico, temendo che mi arrivi dritto dritto tra le buste della spesa che stanno nel baule. Passo questa funesta ora di coda imprecando e bestemmiando e insultando questo tipo, aggiungendo segni con le mani e con le dita, ma senza che lui mi presti alcuna attenzione. Spero con tutto il cuore che se ne voli fuori strada. Che alla prossima zigzagata sulla destra la ruota scivoli verso la risaia portandosi lui e la sua macchina del cazzo dritti dritti fra i batraci.

E quando arrivo a casa, finalmente evviva eureka, poso le borse sul tavolo e inizio a svuotare. Visto che spendo trecentomilalire ogni volta che vado all’ipermercato, mi aspetto sempre che dalle borse escano degli articoli a sorpresa, che non avevo comprato, ma che la cassiera è stata addestrata a far passare sul rullo senza che i clienti se ne accorgano. Se riempio il cartello, trecentomila. Se lo riempio per metà, trecentomila.
Ci conoscono! Sono le tessere. Quelle tessere merdose che ti fa ogni ipermercato. La tessera che ti dà diritto a dei privilegi. Sconti solo per te, che hai la tessera. Gli altri? Pfui, se ne andassero pure affanculo. Questa è una storia tra l’ipermercato e me, che ho la tessera. Sono un vip, un very ipermarket person, e mi prendo il tonno a tremila, mentre tutti gli altri se lo comprano a cinque. Fottetevi, bastardi. Io ho la tessera.
Ma quando la cassiera passa la suddetta tessera sul lettore del codice a barre, ecco che quel codice le trasmette tutto di me. Come mi chiamo, chi sono, cosa compro. E sa che ogni volta spendo trecentomila e il computer, allora, mi fa uscire quella cifra. Hanno tutto scritto. Analizzano, poi dicono “Questo qui non si è mai lamentato delle trecentomila, lasciamogliele di fisso e ogni tanto aumentiamo di qualche mille, finché non sbotta”.

Invece, sempre robetta striminzita, da queste borse. Cazzate. Scatolette, sottaceti, saccottini, biscottini. Trecento carte di ignobili cazzate. E a guardarle bene, così, sparpagliate sul tavolo, mi accorgo che non so che cosa mangiare per cena. Non c’è niente, lì in mezzo, per cena. Sempre, sempre così. Giro l’ipermercato e mi metto nel carrello tutte le stronzate e gli stuzzichini e le birre e un dvd per passare la serata e…
… e poi non ho preso niente per cenare questa sera.

Mi cerco un buon cd da ascoltare, toy dolls magari, e mi rimetto in macchina.
Pizzeria.

Cose mie

Ne assaggio un po’ del tuo

A volte, le donne fanno e/o dicono cose che mi incattiviscono. Le amo, le adoro, le osservo estasiato per come in loro il mondo prende un aspetto gentile e leggero e armonico, ma questo non cancella la terribile verita’: fanno cose per le quali le impalerei.

La peggiore, in assoluto, è la loro necessità di accontentare il palato pur essendosi votate a una vita di sacrifici dietetici. Il loro bisogno di sedare la gola senza per questo sentirsi peccatrici. Come? Assaggiando. Vivendo ai margini del piatto maschile e assaltandolo di quando in quando con incursioni veloci e drammatiche, devastanti, inaccettabili.
Un esempio. Un interno di un ristorante qualunque in un punto qualunque dell’occidente. L’uomo, al termine di un pasto appagante, ordina il dolce più buono del mondo, proiettandosi immagini dello stesso nella sua mente semplice, pregustando creme o sfoglie o frutti o zuccheri o. Guarda la sua compagna con un sorriso, le chiede se anche lei prende qualcosa… e la risposta è sempre, o quasi, la solita: “No, semmai ne assaggio un po’ del tuo”.
Lui non si scompone, continua a mostrare il sorriso suadente, le dice “Certo, volentieri” e nello stesso instante pensa: Ma cristo santo! Cazzo! Ma perché? E’ il dolce più buono del mondo, ho mangiato per un’ora pensando a questo momento, immaginando il sapore delle creme sulla mia lingua… e tu devi rubare impunemente alcuni momenti di gioia dalla mia vita? Bastarda maledetta!

Dolci buonissimi e piccoli, minuscoli, che si perdono in grandi piatti da nouvelle couisine. Cinque forchettate ben messe, o una decina, se opti per dosi mignon che daranno vita all’illusione di un piacere più duraturo… Già non ti basta la tua porzione… E devi darne un po’ a lei. Cazzo! Io non glielo voglio negare. Ma dico: prendine una porzione e avanzala. Avanzala, non fa niente, butto via dei soldi, quanti se ne buttano, ma almeno mi godo questo sottile piacere della vita! Macché…
Lo mangi vivendotelo male. Malissimo. Perché non sai quando il rapace attaccherà. Puoi solo limitarti a guardarla, sorridente, appostata davanti al tuo piatto con la forchetta che le gira tra le dita come un bastone da majorette. Parla come se nulla fosse, sorride, ti racconta aneddoti della sua vita. E mentre quasi ti sei dimenticato della sua dichiarazione di guerra, mentre ti perdi in un suo racconto e nelle parole che le escono di bocca e volano in alto passandole tra i capelli ZAC! La forchetta è passata nel tuo piatto ed è già in direzione della sua bocca con un pezzo del dolce più buono del mondo.

Se l’uomo la conosce da tempo, se già si aggira per casa nudo, lasciando mutande ad ogni angolo come fossero bandiere e ha eretto almeno una volta un fortino di rotoli di cartigienica vuoti, allora potrà ricorrere al trucco della fretta che fa dimenticar. Mangerà tutto in velocità (ma comunque il piacere sarà irrimediabilmente inquinato da questa furia) e alla fine la guarderà desolato e affranto dicendole: “Oh miodio! O maledizione! Scusami, perdonami, l’ho mangiato tutto e me ne sono scordato… ne ordino un altro…”.
Lei lo odierà. Certo, che lo odierà. Ma non dirà nulla e balbetterà un “Fa niente…” ingoiando alcuni litri di bile.
Se invece la confidenza è purtroppo ai minimi, se il livello di conoscenza deve ancora impennarsi o se addirittura si è alle prime uscite, ai test che potrebbero compromettere senza appelli questa crescita di livello… bé, non ci saranno trucchi utili. Loro, le donne, controllano tutte queste piccolezze. Gli uomini giudicano e valutano l’altro sesso per aspetti più profondi e complessi (belle tette, gran culo…) ma loro no; loro osservano i dettagli, i più invisibili, alcuni dei quali del tutto sconosciuti agli uomini (per esempio, lo sapevate che alle donne disturba se alla domenica, mentre vengono condotte in passeggio su un lungo lago, il loro compagno passa tutto il tempo con una radio che trasmette partite di calcio attaccatta all’orecchio? E avreste mai detto che sono felici se qualcuno le aiuta a lavare i piatti?). Certo un uomo ai primi appuntamenti non vorrà distruggere un futuro amore per degli stupidi dettagli. Dovrà fingere il sorriso, dovrà dirle “Certo, volentieri, assaggia pure un po’ del mio”.

Come in tutti i dolci che si rispettino, c’è una parte buona e una meno buona. Se l’uomo si trovasse tranquillo e solitario tra le pareti domestiche, La logica gli direbbe di mangiare prima la parte meno buona (per esempio la crosta se è una crostata) e poi godersi la migliore in poche ma favolose forchettate, in un piacere così totale che cancella per un minuto tutti gli orgasmi che ha avuto.
Ma al tavolo del primo appuntamento non si può. Qui c’è l’incognita: lei. Bastardissima creatura senza cuore che appare distratta e dimentica, ma che invero ricorda tutto. L’uomo mangia questo dolce preso dal panico. Quando colpirà? Quando attaccherà? Adesso, subito, portandosi via brandelli della parte più buona, oppure dopo, dividendo con me l’ingrato compito di mangiarsi anche la crosta?
Di solito, per uscire da questa situazione, l’uomo le ricorda il fattaccio. “Prendine pure un po’…”, porgendole il piatto. Se va bene, lei si prenderà i due pezzi migliori, ma almeno l’agonia sarà finita. L’uomo mangerà quello che rimane nel piatto in una mesta tranquillità.
Se va male, lei risponderà la seconda frase peggiore dopo “ne assaggio un po’ del tuo”: “No no, grazie, avanzamene un po’”.
L’uomo è allo stremo. Un po’?! Che cos’è “un po’”? Quantificami “un po’”. Quanto le avanzo, e che cosa le avanzo? Mica le posso dare la crosta. No, porca merda schifosa, la crosta me la mangerò io, e a lei dovrò dare la parte buona, per giunta un bel pezzetto, mica posso fare la figura del pidocchioso del cazzo.

La terza versione è un insieme delle due precedenti, ma mossa da un’incognita costante, e vede lei che all’improvviso, come un felino, fa volare la sua forchetta (o il cucchiaio, dipende dal dolce) nel piatto dell’uomo, portandosi via un bel pezzo, magari quello che lui aveva evitato di mangiare per gustarlo alla fine. E continua tranquilla e beata in questa sua tortura, afferando ogni pochi istanti un altro dei pezzi migliori, fino a mangiarseli tutti. Tutti i pezzi migliori.
L’uomo continua a sorridere, i suoi pensieri continuano a non seguire la linea delle labbra. Ho sognato quel dolce. Sono venuto in questo locale proprio per quel dolce. Io me lo sono ordinato e lo pagherò io. Tu non l’hai voluto. Cazzo, potevi prenderlo e non l’hai voluto. E ti sei mangiata il mio, brutta puttana.

Un solo pensiero galleggia nella mente dell’uomo, uscito dal ristorante dopo aver pagato la cena e i brandelli di dolce. Un solo pensiero si conficca nel suo cranio senza lasciarlo. Un solo pensiero, il solito: speriamo che almeno me la dia.

FINE (?)

Bonus Tracks: Alcuni esempi: di seguito, alcuni esempi di gioie rubate. Divertitevi a trovarne di nuovi, per passare una serata all’insegna dell’allegria, in alternativa al solito spinello di droga leggera.

1) Compri un cornetto algida all’amarena. Quello che nella foto ha una pianta di amarene infilata in una nuvola morbida di gelato cremoso e quando lo apri e togli il coperchietto di cartone trovi un gelato di granito e una mezza amarena affogata in un suo stesso sputo.
L’hai comprato in funzione di due cose soltanto: l’amarena merdosa in punta e il pimpirillino finale del cornetto, nel quale c’è quel milligrammo di cioccolato duro e squisito. Lei (o anche un tuo amico che però potrai – almeno – mandare cordialmente a farsi sodomizzare) mangerà quelle due cose.

2) Apri un saccottino del mulino bianco. Nella foto sulla confezione c’è questo saccottino aperto dal quale cola circa mezzo chilo di marmellata. Non è stato aperto, pensi, si è spezzato in due dalla pressione lavica della marmellata. Dentro c’è una fototessara di marmellata. Un c’era una volta della marmellata. Il suo ricordo.
Devi mangiare il saccottino da tutti e quattro i suoi lati, un pezzo alla volta, impastandoti la bocca e ingurgitando litri d’acqua perché un pastone di farine asciutte non calcifichi tra le tue mandibole e immaginando l’ultimo millimetro, l’ultimo agognato millimetro quadrato nel quale ti aspetta una pellicola di marmellata che ti si scioglierà tra le labbra e quando finalmente ci arrivi, quando hai quel dannato francobollo tra le dita, arriva lei e se lo mangia, sorridendoti e succhiandosi il dito. L’indice, e tu trattieni il medio.

3) L’ultimo boccone, e questo vale per tutte le cose. Mangi con relativa velocità dividendo mentalmente tutti i bocconi che sono a tua disposizione, godendoteli con un leggero anticipo. Ogni morso di panino, ogni forchettata di pasta, ogni pezzetto di bistecca preannuncia quello che seguirà. Ma al penultimo boccone lei ti mangerà l’ultimo, lasciandoti totalmente spiazzato, come in un coito interrotto.

Cose mie, Uomini & Donne